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Scheda critica del film:

  

L'altro volto della speranza

(Toivon tuolla puolen)

Il Regista
Aki Kaurismaki nasce a Orimattila ,Finlandia,il 4 Aprile1957.
Regista, sceneggiatore e produttore. Studia giornalismo all'Università di Tampere. Durante gli anni di studio si occupa di critica cinematografica e lavora come montatore durante le vacanze estive (per mantenersi fa vari mestieri, dal postino al lavapiatti). Nei primi anni '80 inizia a lavorare col fratello Mika insieme al quale dirige "Saimaa-ilmiö" ('Lago Saimaa', 1981) e interpreta "Valehtelija" ('The Liar', 1981) e "I senza valore" (1982). Nelle loro prime esperienze cinematografiche i due fratelli collaborano spesso tra loro e insieme fondano la casa di produzione 'Villealfa' (omaggio al film "Agente Lemmy Caution, missione Alphaville" di Godard).

Filmografia
    •       Delitto e castigo (Rikos ja rangaistus) (1983)
    •       Calamari Union (1985)
    •       Ombre nel paradiso (Varjoja paratiisissa) (1986)
    •       Amleto si mette in affari (Hamlet liikemaailmassa) (1987)
    •       Ariel (1988)
    •       Leningrad Cowboys Go America (1989)
    •       La fiammiferaia (Tulitikkutehtaan tyttö) (1990)
    •       Ho affittato un killer (I Hired a Contract Killer), (1990)
    •       Vita da bohème (La vie de bohème) (1992)
    •       Tatjana (Pidä huivista kiinni, Tatjana) (1994)
    •       Leningrad Cowboys Meet Moses (1994)
    •       Nuvole in viaggio (Kauas pilvet karkaavat) (1996)
    •       Juha (1999)
    •       L'uomo senza passato (Mies Vailla Menneisyyttä) (2002)
    •       Le luci della sera (Laitakaupungin valot) (2006)
    •       Miracolo a Le Havre (Le Havre) (2011)

Lo stile di Kaurismaki
In realtà, lo stile di Kaurismaki è ormai diventato una grafia leggera, un segno di riconoscimento che ha superato il rischio del manierismo, per giungere alla purezza dell’essenziale. Ed è quindi adattabile a ogni situazione, a ogni racconto, a ogni modalità di presa sul reale. Quella fotografia di luci che tagliano l’uniformità degli ambienti, quelle scenografie dal funzionalismo povero, quell’antinaturalismo delle espressioni e dei gesti tornano a una specie di grado zero dell’immagine,  in cui la regia annulla ogni impressione di sforzo e raggiunge la massima estensione e duttilità espressiva possibile. È perfettamente centrata, ma al tempo stesso percorsa in obliquo, a squarcio, aprendo infinite vie di fuga verso il fuoricampo, verso altre possibilità, altre dinamiche, altre prospettive di vita. Un po’ come quell’ironia irresistibile, che non agisce a scoppio, ma per istantanee o per lenti movimenti e quindi giustapposizioni di attimi che tendono all’immobilità dello zero: una parola, un gesto, una mano che pulisce un vetro che non esiste. Che quella di Kaurismäki sia un’arte del mimo? Un cinema che si muove lungo il punto di congiunzione tra l’astratto del gesto e il concreto della presenza, tra la tristezza e la felicità. In cui il formalismo apre le porte al realismo e la realtà è un’altra forma da scardinare. È qualcosa che scompagina comunque la logica dei tempi, di questi tempi, e che trasforma l’insensatezza in un un intervento reale, che sovverte le gerarchie tra l’eccezione e la norma, tra il marginale e il conforme. A seconda di quale occhio guardi, puoi vedere la speranza o l’altro lato. Che è miserabile, forse. Ma pur sempre di speranza si tratta. Come sa bene Khaled, che sorride comunque.
(Aldo Spiniello, 6 aprile 2017, sentieri selvaggi.it).

Calore umano e forza politica
A volte, il modo migliore di trattare un problema serio è quello di utilizzare toni poco seri. O che sembrano tali.
A volte, per far fronte ai colpi duri della vita, bisogna tenere la bocca chiusa e il cuore aperto: niente recriminazioni, niente polemiche, niente giudizi, ma la capacità di accettare sé stessi e gli altri.
Pare facile, ma non lo è. Aki Kaurismäki è uno di quelli che lo sa fare, e bene.
Che lo sa fare bene, e lo fa sembrare la cosa più naturale e lineare del mondo.
Come tutti i film del finlandese, anche questo dà l'impressione di sgorgare così com'è dalla mente del suo autore, a dispetto dell'evidente costruzione, dello stile antinaturalista, dell'intreccio della trama.
E possiede un calore umano e una forza politica che non solo non vengono mai ostentati, ma che anzi vengono trattati con quell'atteggiamento quasi distratto e casuale che fa sembrare il cinema del finlandese e le vita dei suoi personaggi un succedersi di eventi paradossali e surreali che però non potrebbero essere altrimenti.
La straordinaria capacità che ha Kaurismäki di raccontare con questa impassibile naturalezza l'assurdità delle cose e del mondo si sposa perfettamente con l'assurdità dei nostri tempi, con la follia delle guerre, la crisi dei rifugiati, quella economica, e la loro sconsiderata gestione da parte delle istituzioni politiche e non.
E  lo sguardo del regista è sempre imperturbabile: tanto di fronte alla storia di un rifugiato siriano sbarcato quasi per caso a Helsinki, al suo chiedere asilo, raccontare la sua storia, vivere una condizione di clandestino, quanto davanti a quella di un uomo che cerca di cambiar vita e lo fa vincendo una somma enorme a poker come fosse una cosa ovvia, e comprando uno squinternato ristorante.
Bocca chiusa, cuore aperto: nessuno svolazzo retorico, puro racconto di un'umanità che è  fatta delle stesse cose, che ha le stesse esigenze.
Nell'universo cinematografico fuori dal tempo che gli è proprio, dove il presente fonde con col passato, gli anni Cinquanta con gli Ottanta, la musica (onnipresente e salvifica, rigorosamente blues e rock) con le parole o coi silenzi, Kaurismäki racconta un mondo dove le persone buone si aiutano fra di loro (magari dopo essersi presi a pugni, senza chiedere poi tanto in cambio e senza mettere manifesti, perché sono i gesti piccoli, quasi impercettibili, che contano, anche quelli di un sopracciglio: anche al cinema), ma dove le strade si possono comunque separare, e il male che ci circonda non è destinato di certo a sparire facilmente.
Tutto quello che possiamo fare, dice il film, è fare del nostro meglio.
(Federico Gironi, 14 Febbraio 2017, coomingsoon.it).

Guardare con freddezza
Ripartendo da dove era arrivato con Miracolo a Le Havre, il regista finlandese ribadisce le proprie idee sull’Europa e sulle politiche dell’accoglienza e della gestione di rifugiati e richiedenti asilo che arrivano dall’Asia e dall’Africa, opponendo alla visione profondamente negativa – anche se sarebbe meglio dire disillusa – che ha del vecchio continente, quella positiva di comunità. La intende come  gruppo ristretto di persone che include, condivide e accoglie senza dare giudizi, senza chiedere spiegazioni e che se ne frega se deve infrangere qualche legge che ritiene ingiusta. Questa forma di comunismo immaginaria, racchiusa dentro un microcosmo di periferia e disegnata con la consueta forma minimalista e a metà strada fra oggettività e fantastico, non deve però trarre in inganno. Kaurismäki non vuole fare un cinema di buoni sentimenti o costruire un ipotetico mondo migliore. Ma descrivere piuttosto una sorta di società possibile e all’interno della quale non si agisce contro qualcosa o qualcuno, ma semplicemente per il bene proprio e degli altri. Senza tirate morali o lezioni di buonismo.
L’ omogeneizzazione di corpi, che è di riflesso una condivisone di idee, Kaurismäki ce la mostra e ce la fa avvertire, come sempre, anche attraverso la costruzione formale. Non rinuncia nemmeno questa volta al 35mm e con il consueto uso morbido della fotografia riesce a mettere in scena un mondo fuori dal tempo, sospeso fra le tinte olivastre degli interni e la desaturazione fredda degli esterni. Sottolineando l’impressione che i personaggi vivano in un universo costantemente in bilico fra speranza e rassegnazione. L’equilibrio simmetrico delle inquadrature e l’uso geometrico degli spazi, tende a costruire, inoltre, un estremo senso di oppressione, accentuato dalla reiterata presenza di elementi che definiscono lo spazio e incorniciano i personaggi: una porta, un oblò, un finestrino oppure lo schermo di una macchina fotografica, il bagagliaio di un camion o l’interno asettico di una cella di detenzione. Ed è forse in questo senso della misura, in questa strutturazione in levare degli elementi enunciativi, che sta la forza del cinema di Kaurismäki. Dare voce e dire la propria su un emergenza talmente abnorme che è impossibile da ignorare, ma farlo stando sempre un passo indietro, senza perdere la calma e la ragione. Laddove anche le fughe, le scazzottate e i litigi sono modulati dalla lentezza e da un agire quasi imperturbabile. Perché a volte le cose, a guardarle con freddezza, si può sperare di comprenderle meglio.
(Lorenzo Rossi, 5 aprile 2017, cineforum.it).

Alla ricerca di un mondo più giusto
La scelta del regista è da sempre quella di stare dalla parte dei marginali, dei loser, e di raccontare le loro disgrazie ma anche le loro grazie, la loro ostinazione nel cercare un mondo più giusto e nel tentare di costruirlo pezzetto per pezzetto, pervicacemente.
In questo percorso essi incontrano spesso i “normali” pur se delusi dal mondo così com’è, che in molti dei suoi film decidono improvvisamente di cambiare strada come il non giovane commerciante-venditore di questo film, che decide di cambiare vita e si dà al settore, più gratificante (anche se inflazionato), della ristorazione.
Recupera un ristorante noioso e il suo personale, e insieme trasformano il locale in un ritrovo esotico e ballerino, che trova un pubblico nuovo e vivace. A questa storia s’intreccia quella di un immigrato clandestino dal Medio Oriente che ad Aleppo ha perduto parte della famiglia sotto i bombardamenti, e nella fuga ha perso le tracce di una sorella, sopravvissuta come lui ma finita chissà dove.
Le fatiche dei richiedenti asilo sono raccontate con la partecipazione di un autore che si considera un outsider, e dunque anche lui in qualche modo straniero, in quanto estraneo alle regole del gioco stabilite da chi comanda. Kaurismäki racconta con la consueta essenzialità e scansione, per immagini limpide e prediligendo una recitazione estraniata, antinaturalistica. Intende stabilire sempre una distanza tra il film e lo spettatore. Non intende commuovere, ma solo mostrare e dimostrare. Non ama la retorica e i comizi sentimentali della stragrande maggioranza dei registi che si dicono buoni.
La tragedia dei nostri anni.
In genere, si resta irritati o indignati di fronte ai tantissimi film e documentari che affrontano, anche in Italia, temi simili secondo le vecchie modalità paratelevisive e giornalistiche di una denuncia insincera e del ricatto sentimentale (e questo vale anche per tanta letteratura). A scrivere e a filmare non sono degli outsiders ma degli insiders preoccupati in primo luogo del loro successo e della loro carriera, e che sono membri di quella vastissima parte dell’umanità di oggi che, chi più chi meno, vive e guadagna alle spalle di chi soffre, mediatori indispensabili dentro un sistema economico aberrante, ammortizzatori del disagio, addomesticatori di possibili ribellioni.
Kaurismäki non è di questi, e non lo è anzitutto per la scelta del suo stile, per il modo in cui racconta, dettato dall’amore che porta ai suoi personaggi e dall’identificazione nelle loro pene. Non vuole commuovere, vuole capire e vuole aiutare a capire. Il finale di L’altro volto della speranza non è affatto consolatorio, non sappiamo se il protagonista sopravviverà alla coltellata del fascista. Non sappiamo cosa ne sarà delle migliaia e migliaia di persone come lui, in un’Europa decisamente frigida, decisamente egoista, con una sinistra molto ipocrita e molto di destra, e con una popolazione in cui abbondano i falsi buoni e quelli veri latitano, non agiscono.
(Goffredo Fofi, 7 Aprile 2017, internazionale.it).

scheda tecnica a cura di Stefano Bona

 



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