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Scheda critica del film:

  

Sofia

La Regista
Meryem Benm'Barek-Aloïsi è una regista e sceneggiatrice marocchina, nata in Marocco il 21 Luglio 1984. Ha ricevuto il premio Gan Foundation 2017 e una sovvenzione dal Doha Film Institute, sempre nel 2017. Il suo film, Sofia ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura a Cannes, sezione Un Certain Regard nel 2018.

 

Codice penale e codice morale
Sofia è ricca ma poco bella, un brutto anatroccolo rispetto alla madre e alla zia, signore eleganti della buona società di Rabat, e soprattutto alla cugina e coetanea Lena, che ha lineamenti fini, un padre francese ed è medico. Sofia è protetta dal benessere della sua famiglia, ma non ha un lavoro o un'idea di cosa fare nella vita. Il bambino che porta in grembo all'insaputa di tutti è la sua rivincita e al tempo stesso la sua vergogna; il segno della sua estraneità al mondo familiare e sociale di cui fa parte. L'esordiente Meryem Benm'Barek, marocchina cresciuta in Belgio, osserva con sguardo critico la vicenda della sua protagonista, facendo emergere in modo sottile eppure spietato le radicate dinamiche sociali che la attraversano. La gravidanza segreta di Sofia svela l'arretratezza dei codici penali e morali del Marocco contemporaneo e di rimando lo scontro di classe fra le due famiglie coinvolte nel caso, entrambe decise per motivi diversi - l'onore per quella di Sofia, la sicurezza economica per quella di Omar - a nascondere dietro la facciata della rispettabilità questioni di puro interesse. Con uno stile di straordinaria precisione, giocato su campi e controcampi che nelle scene d'interno danno conto visivamente delle divisioni fra i personaggi, Benm'Barek (che lo scorso anno a Cannes ha vinto con il suo film il Premio per la miglior sceneggiatura nella sezione Un certain regard) traccia il ritratto di un mondo che pone al centro la Legge e la famiglia, ma non sa risolvere la persistente frattura tra modernità e tradizione, vita privata e morale pubblica. Nell'immobilità di un sistema che soffoca la volontà individuale - frustrando la libertà sessuale delle donne, così come le possibilità d'emancipazione dei più deboli - è perciò significativo che la soluzione avvenga grazie all'intervento, all'insistenza e alla praticità delle sole donne. L'accordo fra Sofia e Omar, che non accontenta nessuno ma salva la faccia di tutti, è infatti il frutto di una mediazione trasversale fra le madri, le zie e le sorelle dei due ragazzi, uniche figure vive ed energiche del film laddove, al contrario, gli uomini scelgono il silenzio e l'inerzia, forti di un privilegio secolare e solo più di facciata. (Roberto Manassero, mymovies.it)

Vittime e carnefici
Premiato per la sceneggiatura nella sezione Un certain régard del festival di Cannes, quest'opera prima al femminile ci parla con mirabile capacità di sintesi ed estrema chiarezza della condizione della donna in Marocco, utilizzando la vicenda di una ragazza adolescente rimasta incinta in un paese in cui è reato avere rapporti sessuali fuori dal matrimonio. Nel tentativo di risolvere la situazione in modo positivo per tutti e trovare un marito - sia o non sia il padre del bambino - le donne si mettono in moto, di fatto perpetuando uno status quo che fa comodo alla società maschile e maschilista. E' un film che non fa sconti, perché mostra quanto anche le donne, dove le leggi sono ingiuste, possano trasformarsi a loro volta in carnefici quando è in gioco l'onore della famiglia e il benessere economico, in un circolo vizioso che è necessario spezzare per poter affermare la propria libertà di scelta. (Daniela Catelli, comingsoon.it)

Al di qua e al di là della Legge
Avere rapporti sessuali al di fuori del vincolo di matrimonio, in Marocco, è punito dalla legge con un anno di carcere, e a Lena non sfugge il fatto che il piccolo che sta per nascere non è certo frutto di un miracolo; quando finalmente Sofia dà alla luce una bambina, il vero problema sarà ricucire i rapporti col padre della piccola, entro 24 ore, prima che l’ospedale contatti le autorità per procedere penalmente.
Meryem Benm’Barek, che è nata a Rabat ma è cresciuta in Belgio, prende a pretesto una situazione non infrequente nel suo paese di origine per raccontare, con una sicurezza ammirevole e nella misura classica degli 80 minuti, i due volti della nazione marocchina, quello arretrato e tradizionalista e quello progressista e moderno, due volti che nella quotidianità sono separati da una cesura netta, che in sostanza impedisce un reale progresso del Paese; e lo fa mettendo al centro la famiglia, la tradizione e la legge.
Da questo punto di vista è emblematico, una volta individuato il padre putativo della creatura – il giovane Omar, che vive in un quartiere popolare – che il confronto tra le famiglie avvenga nello spazio confinato del salottino di un riad con due divani affrontati, attraverso un gioco di campo/controcampo “a tre volti”, che asseconda con piccole variazioni il procedere della negoziazione, ponendo in rilievo il reciproco avvicinamento delle parti, gli uni intenzionati a contenere lo scandalo e evitare grane penali, gli altri allettati dalla possibilità di un miglioramento economico legato all’upgrade sociale derivato da un matrimonio riparatore.
È in quella stanzetta semplice ma luminosa, connotata da tutti i segni della tradizione e dell’ospitalità magrebina, che Benm’Barek fa emergere una traccia importante del discorso, l’intesa trasversale, interclasse, tra le donne, una sorta di matriarcato-ombra, è la vera forza motrice, in un contesto dove gli uomini sembrano tutti accomunati da un’eccessiva preoccupazione per l’onore, per la tradizione, e da una vocazione al silenzio. Ovviamente il dialogo tra queste donne, che passa più attraverso scambi di sguardi in primo piano che non attraverso le parole, è tutt’altro che privo di condizionamenti e ambizioni personali. E, purtroppo, la stessa Sofia, rifiutando, giustamente, di essere una vittima, si illude di fare il bene di Omar, che è una vittima a propria volta, e lo è due volte: del sistema, delle pressioni sociali e del meccanismo messo in moto da questa giovane, conosciuta per caso in un call-center.
(Alessandro Uccelli, cineforum.it, 13 marzo 2019)

Numi tutelari
Il nume tutelare è Asghar Farhadi, ma l’opera prima della regista Meryem Benm’Barek è ancora ben lontana dal raggiungere l’equilibrio del maestro iraniano, perfettamente sospeso tra rigore della messa in scena e aderenza ai meccanismi narrativi in grado di far scattare l’identificazione tra personaggio e spettatore. Sofia, nell’attenzione quasi chirurgica alla disposizione degli attori nelle inquadrature fisse e nell’adottare l’ormai sdoganata camera a mano nei momenti di maggiore intensità emotiva, soffre di un andamento schematico, da film a tesi, che soffoca l’emozione e si accontenta di lievi sberleffi, appena accennati, al mondo delle istituzioni e dell’ipocrisia perbenista che tanto vorrebbe criticare.
(Gianfrancesco Iacono, cinematografo.it)

Le disavventure della felicità
Una società in cui la felicità e la realizzazione dell’individuo sono le inevitabili vittime sacrificali. Così la didascalia finale ci illustra le deprimenti statistiche sugli aborti clandestini e sui ritrovamenti di neonati morti abbandonati in Marocco.
Meryem Benm'Barek-Aloïsi debutta nel lungo con un film promettente, ma ancora acerbo: se nella prima parte gioca con efficacia sul registro naturalistico, riuscendo a creare un thrilling con un'evidente economia di mezzi e pochi elementi molto ben giocati (lo svelamento dello stato di Sofia, il poco tempo a disposizione, le difficoltà per ottenere assistenza, la famiglia ignara che attende), risulta molto meno efficace quando lo scenario si focalizza sulla questione burocratica e va a scavare, di rimando, nelle dinamiche familiari. A quel punto il confronto tra i personaggi risulta tutto di maniera e ripiegato su una tesi di cui lo stesso twist costituirà un corollario.
(Luca Pacilio, spietati.it)

scheda tecnica a cura di Mathias Balbi

 



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